Milli mála - 01.01.2012, Blaðsíða 222
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PASOLINI E IL DIBATTITO SULLA LINGUA
“storia di libri” cui accennava la Maraschio è stata caratterizzata dal
confronto fra l’accettazione più o meno radicale delle tesi bembiane
(e poi puriste) e la più o meno radicale opposizione ad esse. Ciò non
toglie che non solo la storia della lingua, ma pure la storia della
letteratura italiana sia anche una storia di dialetti, e anzi, per citare
un passo di Gianfranco Contini, “l’italiana è sostanzialmente l’unica
grande letteratura nazionale la cui produzione dialettale faccia vi-
sceralmente, inscindibilmente corpo col restante patrimonio”
(Contini 1970: 611). I dialetti, quando usati a scopo letterario, più
che contrapporsi all’egemonia del toscano e del fiorentino, soprat-
tutto intendevano rappresentare ambienti e situazioni popolari in
maniera stilisticamente più credibile, e generalmente l’uso del dia-
letto aveva a che fare con la ricerca dell’effetto comico, effetto che
l’altezza e il prestigio della lingua modellata sul fiorentino petrar-
chesco o boccaccesco non avrebbe potuto raggiungere.8
Ad ogni modo, la cosiddetta “questione della lingua”, nella pe-
nisola italiana, è sempre stata una questione relativa alla lingua
letteraria, almeno fino all’unità d’Italia, e – continuando a sintetiz-
zare – il dibattito, per secoli, è ruotato più o meno sempre intorno
alle stesse tendenze: la tendenza “purista”, cioè quella tendenza più
o meno conservatrice a usare una lingua il più possibile vicina al
fiorentino trecentesco; la tendenza “antipurista”, cioè quella ten-
denza più o meno innovatrice a usare una lingua che tenesse conto
di variazioni diacroniche e diatopiche; la tendenza ad accogliere (o
a rifiutare) novità fonetiche, grammaticali, sintattiche, lessicali più
o meno rivoluzionarie; la tendenza, o la scelta, di contemplare o
meno, nel “letterario”, anche il dialetto.9 Questo, come si è detto,
8 Anche il toscano, tuttavia, nella storia letteraria italiana, non è esente da abbassamenti verso il
popolo e la dialettalità. Basti pensare a certe espressioni (“senza andar col cimbalo in colombaja”,
“e sì sconcerai l’uova nel paneruzolo”, ecc.) adottate da Galileo Galilei nelle Considerazioni al Tasso,
un suo scritto giovanile ancora relativamente poco studiato e di cui poco si sa anche riguar do alla
data di composizione, o a quelle usate dallo stesso Galilei nel Saggiatore (1623), la sua opera più
importante dal punto di vista dello stile letterario (“fuor di burle”, “io vi voglio pigliare alla strac-
ca”, ecc.); e basti pensare a La Tancia (1612) e La Fiera (1618), le celebri commedie rustico-
popolari di Michelangelo Buonarroti il Giovane (1568–1646) – pronipote del più famoso
Michelangelo Buonarroti, scultore e architetto – in cui l’autore adotta elementi della parlata
toscana contadina.
9 La questione della lingua, come specificava Parlangéli nel 1971, “può essere di un tipo o di un
altro; ad es., in Ispagna c’è lo scontro tra la sezione catalana e quella castigliana; in Grecia
l’opposizione tra la lingua ufficiale e scritta, la katharévusa, e la lingua popolare e parlata, la dhi-
motikì; in Francia la pressione dell’argot; in Inghilterra l’estrema diffusione geografica dell’ingle-
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