Milli mála - 01.01.2012, Blaðsíða 221
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STEFANO ROSATTI
comin ciò a essere considerata come quella di maggior prestigio in
assolu to in tutta la penisola.5 Il che non voleva dire che il fiorentino
sa rebbe stato buono in ogni occasione. Per tutti i rami del sapere,
della dottrina, c’era, ovviamente, ancora il latino6, mentre per la
comunicazione quotidiana c’erano appunto le parlate locali, che
mantennero le loro strutture e le loro funzioni. Il fiorentino, dun-
que, servì per rappresentare ed esprimere soprattutto la lingua let-
teraria. Solo in seguito, e attraverso un processo lento, il fiorentino
fu assunto dalle cancellerie per diventare, a poco a poco, anche la
lingua dei documenti e della burocrazia (Marazzini 2006: 186–
187). Come è noto, poi, nelle sue Prose della volgar lingua (1525),
Pietro Bembo (1470–1547) fissò la norma del volgare letterario sul
modello del fiorentino trecentesco di Petrarca e Boccaccio e tale
norma venne accettata da ampi settori di letterati e “intellettuali”
su tutta la superficie di quel territorio che oggi corrisponde all’Ita-
lia.7 Anzi, molto sinteticamente, si può dire che dall’uscita delle
Prose della volgar lingua a quella dell’edizione definitiva (1840) dei
Promessi Sposi di Manzoni (e siamo già in epoca pre-unitaria), quella
5 Naturalmente il prestigio del fiorentino non deriva solo e unicamente dalle sue Tre Corone, ma
anche dal fatto che Firenze, nel Trecento, era una delle città culturalmente, economicamente e
politicamente più importanti d’Europa e senz’altro la più importante della nostra penisola. Come
sostiene Vittore Pisani, “Una protolingua non può essersi formata che dal confluire in una lega
linguistica di parlate anche molto dissimili tra loro […] abbia o non abbia in una tale formazione
agito una lingua-guida […] p. es. in Italia, ha agito il dialetto di località più importanti politica-
mente, economicamente e così via” (Pisani 1967: 4–5): il fiorentino, appunto.
6 E il latino ci sarebbe stato per lungo tempo ancora. Per quanto riguarda il mondo accademico, ad
esempio, le prime lezioni in italiano in un’università pubblica risalgono al 1754, quando, a Napoli,
venne istituita la cattedra di Economia Politica, la prima in Europa. Le lezioni di questo corso,
appunto in italiano – e frequentatissime – furono tenute dal filosofo ed economista Antonio
Genovesi.
7 Nei primi decenni del XVI secolo, il Cardinale Pietro Bembo, influente studioso veneziano, poeta
e letterato egli stesso, allo scopo di rendere la lingua letteraria italiana dell’epoca più stabile e
codificata, espose le sue teorie nel trattato Prose della volgar lingua (1525). Nel terzo libro di questo
trattato, Bembo argomentò che la lingua letteraria italiana contemporanea e futura avrebbe dovu-
to basarsi sull’italiano letterario di Petrarca (per la poesia) e di Boccaccio (per la prosa), i due
grandi autori italiani – insieme a Dante – del XIV secolo. Le Prose della volgar lingua ebbero un
immediato successo e diedero luogo a una profonda trasformazione della lingua letteraria italiana,
e soprattutto sancirono definitivamente la separazione fra lingua letteraria e lingua di comunica-
zione. È da Bembo in poi che non si parlerà più di “volgari”, ma si comincerà a distinguere fra
“lingua” (la lingua esclusiva della letteratura) e “dialetti” (le parlate locali di uso quotidiano). Nel
dibattito sulla questione della lingua che ebbe luogo nel XVI secolo, la posizione di Bembo è
chiamata “posizione dell’arcaico puro” e si distingue, ad esempio, da quella “della lingua eclettica
(o cortigiana, o italiana)”, sostenuta da Gian Giorgio Trissino (1478–1550) e da Baldesar
Castiglione (1478–1529), e da quella “del fiorentino (o toscano) moderno”, sostenuta, fra gli altri,
da Niccolò Machiavelli (1469–1527).
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