Milli mála - 01.01.2012, Síða 235
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STEFANO ROSATTI
tecnicismi (ciò che Pasolini chiamava – certo, con termine non
molto ortodosso – “espressività”), ma che la reiterazione stessa del
messaggio comportava il decadimento dell’espressività, ovvero della
mediazione metaforizzante:
Anche nel linguaggio della pubblicità, naturalmente, il principio
omologatore e direi creatore è la tecnologia e quindi la prevalenza assolu-
ta della comunicazione: sicché lo slogan è l’esempio di un tipo finora sco-
nosciuto di «espressività». Il suo fondo, infatti, è espressivo: ma attraver-
so la ripetizione la sua espressività perde ogni carattere proprio, si fossi-
lizza, e diventa totalmente comunicativa fino al più brutale finalismo.
Tanto che anche il modo di pronunciarla possiede una allusività di tipo
nuovo: che si potrebbe definire, con una definizione monstrum: espressività
di massa. (Pasolini 1999a: 1262)
Oggi che l’incidenza massmediatica sulla società è nettamente
superiore a quella del 1965, la proprietà mediatrice e metaforizzan-
te della lingua comune nei confronti dei termini tecnici non ha più
la stessa incidenza di quella giustamente postulata dalla Corti qua-
si cinquant’anni or sono (ma che anche a Pasolini, come si è visto,
non era sfuggita). Data, oggi, la capillare diffusione tra i parlanti
dei “termini tecnici” diffusi dai media, sarebbe interessante valuta-
re in che misura quel “vero e proprio potere fascinatorio” delle lin-
gue specialistiche di cui parla Sobrero (e di cui già De Mauro, come
si è visto, era consapevole) abbia inibito la capacità della lingua
comune di mediare e metaforizzare quelle lingue stesse. Ovvero in
che misura, oggi (in una lingua che comunque, ovviamente, è in
divenire), si sia diffusa, tra i parlanti italiani, quella che Pasolini,
quasi paradossalmente, aveva definito “espressività di massa”.
6.2
Tra i già citati (ved. paragrafo 3) interventi di scrittori e intellettua-
li seguiti all’uscita di “Nuove questioni linguistiche”, tutti si sono
rivela ti molto scettici sulla tesi pasoliniana secondo cui un’ipotetica
classe industriale e borghese del Nord Italia stava mettendo in atto
un’operazione di unificazione linguistica su base tecnologica; non
solo tutti si sono rivelati scettici nei confronti di quella tesi, ma
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