Milli mála - 05.07.2016, Page 336
STUDIO SU CLEMENTE REBORA
Milli mála 7/2015
345
vero che attraverso il ricorso all’analogia astratto-concreto Rebora ani-
ma il proprio mondo, ma non lo fa quasi mai per “animare quel mon-
do di nobili astrazioni e di vibratili idealità” (Bandini 1966: 7), alla
maniera dei mistici.25 Lo fa per un motivo quasi opposto, ovvero per
rendere più sopportabile, trasformandolo, un reale che, per lo spirito
inquieto dell’autore, è drammaticamente ordinario.26 Rebora, poeta-
suo rapito sguardo, / Il nostro pianeta, riverso / Fra piaghe e gonfiori / Nei vipe-
rini orizzonti, / Come insetto scovato si torce” (LXVIII, 5-12); “Nei poggi calvi sot-
to le pietraie, / Fra consensi di laghi e di fonti / Ansiosi a richiamar per ogni val-
le” (LXX, 22-24).
25 In occasione della morte del poeta milanese, Montale scrisse sulla «Gazzetta di
Parma»: “Rebora ha sfiorato la poesia contemporanea, ma le sue radici sono in
quella poesia mistica che non conosce tempo né stagione” (Bandini 1993: 59-60).
Il giudizio è solo in apparenza positivo, per due motivi: perché Montale, usando
il verbo “sfiorare”, esclude, in pratica, Rebora dall’appartenenza effettiva alla con-
temporaneità letteraria; e poi, perché reclude la poesia reboriana nell’ambito
quantomeno delimitato del genere “mistico”. Va detto che Bandini riconosce co-
munque in Rebora anche il gusto di una poesia raziocinante, ispirata al modello
di Leopardi e in sintonia con la vocazione filosofica degli altri poeti vociani. E
anzi, in uno studio più recente, ancora Bandini, proprio allo scopo di correggere
Montale, afferma che “lo stile poetico di Rebora ha molti modi del linguaggio mi-
stico, ma è un fatto che non va sopravvalutato. Sono altrove i valori del suo di-
scorso poetico” (Bandini 1993: 63). Sta di fatto che, comunque, parte della critica
tende ancora a relegare la poesia di Rebora nell’ambito del “misticismo”.
26 Per citare qualche esempio, dall’epistolario (i corsivi sono nostri): “Eccomi di
nuovo repentinamente travolto nel rumore inespressivo della città affaccendata”,
scrive Rebora all’amico Angelo Monteverdi (Nino), il 5 ottobre 1907 (Rebora
2004: 31); e a Daria Malaguzzi, il 4 marzo dell’anno successivo: “Io mi tengo nel
pugno e mi lancio ove sono maravigliose cose a vedere; e ciò per il momento
m’è sufficiente gaiezza e forza per vivere in codesto tramestio di suicidi; la mia
bellezza che serbo qua con infinito trasporto materno, così mal nota, mi permette
di sorridere con cortese condiscendenza anche alle oblique ipocrisie dei medio-
cri” (ibid.: 35); ancora a Daria Malaguzzi il 29 ottobre 1908: “sappia ch’io, pur tra
segrete ansie profonde, vado ritrovando vasti respiri intatti, ove l’ingiuria delle
vicende si risolve in un battito ampio, solenne se non allegro” (ibid.: 43); e il 15
marzo 1910: “La invidio, mentre mi affogo in codesta città di fango e di lucro, ove
la mia follia d’amore e di creazione si esaspera in una monotona sterilità ango-
sciosa: ove la vita pur mirabile d’intensità che vi circola ha malie e fascini solo
per chi ama giostrare in pubblico e sfoggiar la propria esteriorità pomposa e rac-
cogliere nelle mani adunche il più possibile di preda e di piacere con insolenza.”
(ibid.: 72). E sempre alla Malaguzzi, nel 1909: “mi compiaccio che l’altro ieri mi
trovassi a vituperare l’ascensione armoniosa dello spirito che muta in mirabile
bontà vasta anche il dolore più acerbo [...] e mi posi a graffiare accordi e a mor-
dere note insistenti sulla povera tastiera con una furia niente affatto armoniosa e
di nessuna bontà” (ibid.: 59).
Sono solo pochi esempi, ma l’epistolario reboriano del periodo che va dal 1907
al 1913 (anno di pubblicazione dei Frammenti lirici) offre numerose altre testi-
monianze della vacuità e della vanità da cui il giovane Clemente si sente circon-
dato.